martedì 5 maggio 2015

Incroci di convergenze e divergenze (racconto)


-E‘ stato Botolo.
-Come fai a dirlo?
-E‘ stato lui.
-E io ti ripeto: come fai a esserne tanto sicuro?
-Lo so.
-E ti pareva, Mister Genius Genialis – Lisa accompagnò le sue parole portandosi le mani attorno alla testa come se stesse accarezzando un enorme casco virtuale – tra poco non ci sarà più spazio per il tuo enorme cervellone in questa stanza, ci toccherà traslocare.
-La dimensione del cervello non c’entra con la sua funzionalità. Sennò il tuo, che è femminile e quindi più piccolo, dovrebbe funzionare peggio del mio, che è maschile.
-Non è quello che pensi in fondo?
-Decisamente no, anche se a volte non mi lasci altra scelta. Ma nel tuo caso non è una questione di capacità. Più che altro, direi, il tuo è un problema di scelte e di opportunità.

Lisa non rispose immediatamente. Si fermò a riflettere un istante sulle parole appena pronunciate da Antonio con il suo solito tono pedante, analitico e involontariamente saccente. Una reazione emotiva e incontrollata era quello che voleva, per poi muovere le sue pedine d’accusa, secondo la classica strategia finalizzata a  bollarla come preda dell’irrazionalità femminile. Ma non questa volta.

-Mettiamo da parte per un momento la dimensione rispettiva dei nostri encefali – continuò scandendo lentamente le parole e dando uguale peso a ciascuna per evitare qualsiasi tipo di tono – e concentriamoci sull’accusa che hai mosso contro Botolo.
-Non era un’accusa, è un’affermazione.
-Diciamo un’affermazione accusatoria, per semplicità.

Antonio non trovò niente da dire e non rispose. Si aspettava il classico scoppio d’ira che gli avrebbe spianato la strada verso una facile vittoria e si stava ritrovando in un territorio di battaglia a lui nuovo.

-Tu sostienti che sia stato Botolo – riprese Lisa.
-Mi sembra un’evidenza, diciamo, oggettiva.
-E quali sono le caratteristiche di tale oggettività?
-Essenzialmente il fatto che non può essere stato nessun altro – Antonio aprì il palmo della mano come a pesare l’aria – chi altro può essere stato?
-Il vicino di casa, gli alieni oppure un gesto di un’automutilazione di Filippo.
-Si stava precisamente parlando di oggettività Lisa – la chiamava per nome solo quando stava per imboccare la lunga china dell’arrabbiatura, normalmente piuttosto flemmatica.
-E qual’è la tua definizione di oggettività? – Lisa stava chiaramente optando per un logorante conflitto d’attrito.

Antonio non rispose. Si limitò ad andare in soggiorno e a consultare il dizionario. Tornò dopo pochi secondi armato della definizione di Treccani in persona.

-Aderente alla realtà dei fatti, non influenzato da pregiudizi – riferì a Lisa con zelo.
-Appunto! – la parola le era uscita sotto forma di un urletto un po’ troppo acuto.
-Apputo cosa?
-Appunto – ripeté Lisa, questa volta con voce da baritono.
-Appunto – chiosò Antonio che aveva guardato l’orologio e si era reso conto che era ora di cena e stava cercando una soluzione rapida a quella guerra di trincea.
-No, appunto lo dico io.
-OK.

Antonio stava tentando la tattica della resistenza passiva, o anche della desistenza. Aveva saltato il pranzo e aveva una voragine nello stomaco. Sarebbe stato anche disposto a darle ragione pur di poter cenare presto, ma in quel caso non ce l’aveva proprio, e scelse lo stoicismo a oltranza.

-L’hai detto tu no?
-Cosa ho detto?

Sembrava chiaro che le fettine di vitello sarebbero rimaste in frigo ancora per un po’.

-La definizione di oggettivo – Lisa ripeté citando a memoria – aderente alla realtà dei fatti, non influenzato da preconcetti.
-Pregiudizi per l’esattezza.
-Va bene, pregiudizi.

Lisa stava per aggiungere un commento sarcastico sulla rigidità da ingegnere di Antonio, ma decise di conformarsi fino in fondo alla nuova tattica di guerriglia: lo voleva lavorare ai fianchi.

-Va bene anche preconcetti, in fondo sono sinonimi – tentò di concludere Antonio salomonicamente, sperando che un accordo su un dettaglio le avrebbe fatto dimenticare l’origine del diverbio e avrebbe portato all’apertura trionfale della porta del frigo.
-Io vedo due elementi in questa definizione. Numero uno – e qui Lisa si osservò con cura l’unghia del pollice che aveva perso un po’ di smalto – bisogna accertare i fatti.
-Certo i fatti, siamo d’accordo, molto importanti.
-Numero due – continuò lei scoprendo con orrore che anche lo smalto dell’indice si era irrimediabilmente rovinato – assenza di pregiudizi.
-Siamo d’accordo amore.

Non solo Antonio aveva aggiunto la parola “amore”, ma le si era avvicinato facendo intendere che l’avrebbe baciata se lei avesse assecondato il suo gesto.

-I fatti, Antonio, non ci sono – Lisa si era mossa di lato e adesso c’era una sedia a separarli fisicamente – punto.
-Filippo ha perso un occhio Lisa! Non ti sembra un fatto? Di quale altro fatto hai bisogno?
-Certo, ma qui non stiamo parlando di questo.
-E di cosa stiamo parlando allora Lisa?


Antonio sentiva che l’escalation sembrava inevitabile e scaricava la sua frustrazione mettendo e togliendo il tappo a una penna che aveva preso dal tavolo.

-Della causa, o se vuoi, del colpevole di tale atto.
-Che non è riferibile a Botolo chiaramente – Antonio non riuscì a trattenere un risolino di scherno.
-Non è oggettivamente riferibile a Botolo – Lisa gli tolse la penna dalle mani e la ripose sul tavolo.
-Oggettivamente il tuo gatto Botolo è l’unico essere vivente che abbia potuto togliere un occhio molto oggettivo al mio cane Filippo, anch’egli estremamente oggettivo. E lo sai perché può essere solo lui? –

Antonio aveva una certa passione per le domande retoriche.

-Perché lo dici tu – lo spiazzò Lisa.
-Perché sono rimasti soli tutto il santo pomeriggio, senza interferenze esterne (ti ricordi che abbiamo un sistema d’allarme?) e quindi non può oggettivamente esserci nessun altro colpevole – Antonio si soffermò un attimo a riflettere per essere sicuro di non avere omesso nulla – tranne se consideriamo la teoria degli alieni come una possibilità razionalmente accettabile.
-Ascoltami bene perché forse non stiamo parlando la stessa lingua.
-La lingua è la stessa, Lisa, ma la comprensione sembra divergere.
-Se, diciamo ad esempio, un essere A e un essere B coesistono nello stesso spazio per un determinato periodo di tempo – continuò Lisa svelando insospettate capacità di astrazione – e l’essere A risulta mutato nel tempo nelle sue caratteristiche fisiche...
-Diciamo “definitivamente menomato”, giusto per la precisione.
-Lasciami finire!
-Scusa.

Le fettine di vitello stavano tristemente scomparendo all’orizzonte.

-Allora, secondo la tua teoria, l’essere B deve essere necessariamente la causa di tale mutazione e quindi incontrovertibilmente il colpevole.
-La tua equazione è un po’ claudicante e forse è meglio prendere spunto dal tuo campo.
Ingegnere del cazzo! – si lasciò sfuggire Lisa. Poi dimostrando fedeltà alla linea strategica si corresse – scusa Antonio, continua pure.
-Ecco, cosa stavo dicendo?
-Non lo so.
-Non sopporto quando mi interrompi.

La lucidità di Antonio era annebbiata causa basso livello di glucidi nel sangue. Non riusciva a vedere nulla, tranne le fettine di vitello in padella, con salsa di limone e menta, magari accompagnate da puré di patate con una spolverata di cannella e delle cipolline in agrodolce.

-Antonio ci sei? – Lisa lo richiamò dalle sirene del miraggio.
-Ah ecco, cosa volevo dire, beh sì. Se due persone vivono nella stessa casa e una viene uccisa nel momento in cui l’altra è presente, non è normale sospettare dell’altra?
-C’è una certa differenza tra sospetto e condanna, non so se l’avevi notato.
-Certo – ammise Anotnio con rammarico, conscio dei suoi limiti in fatto di giurisprudenza. Stava entrando in un vicolo cieco – ma se tu fossi un giudice, per una volta, e non un avvocato.
-Avvocata prego.
-Avvocata certo. Ecco, in quanto giudice. A proposito, si dice giudicessa o giudica?
-Vai avanti, scemo.
-Insomma, in quanto giudice donna, non condanneresti l’altra persona in assenza di un alibi?
-No.
-Non ci credo.
-Non crederci.
-Appunto non ti credo.

Il vicolo era chiaramente totalmente cieco. Antonio per una volta non sembrava capace di vincere sul suo campo, quello del sillogismo. Lisa, dal canto suo, si sentiva in colpa per quello che era successo al povero cane Filippo, che in fondo non le aveva fatto nulla di male, tranne essere il nemico giurato del suo adorato gatto Botolo.

-Senti – dissero entrambi contemporaneamente.
-Scusa parla tu – sorrise Antonio.
-No dai, è il tuo turno – rispose Lisa conciliante.

Continuarono a fare melina per un po’ finché Antonio, vedendo aprirsi un’opportunità di sedersi a tavola, continuò.

-Mi sembra inutile discutere sul problema.
-D’accordo – Lisa stava adottando una tattica attendista.
-Concentriamoci sulla soluzione.

Antonio sembrava essersi reincarnato in Matteo Renzi, gli stavano spuntando anche i nei sulla faccia.

-Ovvero?
-Che non succeda più qualcosa di simile. Prevenzione.
-OK, siamo d’accordo.

Seguì un discreto silenzio, in cui Antonio cercava le parole adatte e Lisa lo guardava, curiosa di capire su quale specchio intellettuale si sarebbe arrampicato.

-Non voglio insinuare che la colpa sia solo di Botolo.
-Perché sarebbe errato – puntualizzò Lisa.
-Perché sarebbe inverificabile – corresse Antonio.
-Errato barra inverificabile. Punto.
-Ma poniamo l’ipotesi, dico solo un’ipotesi e nulla più, che ci potesse essere un alterco, diciamo fisico, tra Botolo e Filippo.
-Sicuramente non causato da Botolo.
-Lasciamo stare provocazioni e responsabilità. Parliamo di conflitto fisico e basta.
-Va bene, ma reitero il punto di cui sopra.
-Ecco, in caso di conflitto aperto, violento diciamo, risulta evidente che le unghie di Botolo (e ciò indipendentemente da chi abbia iniziato la zuffa) rappresenterebbero un pericolo evidente per Filippo.
-Quindi? – Lisa aspettò a reagire perché voleva capire dove voleva andare a parare.
-E quindi, per ridurre i danni potenziali, magari, potremmo tagliargli le unghie.
-Cosa? Tagliarli le unghie??? – Lisa aveva abbandonato ogni prudenza e tattica d’attrito. Era molto vicina alla strategica Hiroshima e Nagasaki.
-Era solo una proposta – Antonio stava tentando di disinnescare la bomba prima che esplodesse, con gravi danni per la sua glicemia.
-Una proposta del cazzo direi!
-E’ solo un’opinione, la mia – tentò di minimizzare.
-Un’opinione certo. Ma non di meno un’opinione del cazzo, la tua.
-Un’opinione del cazzo che potrebbe essere rispettata.
-Io la rispetto, la rispetto molto, tantissimo. Ma non per questo cessa di essere del cazzo, anzi cazzissimo direi.
-Perché? Qual é il problema?
-Senti, mi sembra evidente che le unghie del povero Botolo sono sicuramente meno pericolose delle zanne di quella bestia di Filippo. Perché non gli tagliamo i denti allora? Magari possiamo asportargli l’intera mandibola, oppure saldarla all’arcata superiore.

Antonio dovette concedere che la logica di Lisa era inappellabile. Lisa, dal canto suo, continuava a sentirsi sempre più in colpa per l’occhio perso da Filippo, che giaceva accucciolato e mogio sulla sua copertina di lana a quadratoni rossi e blu, con il muso nascosto sotto la coda. Si rese conto che quel senso di colpa era una bomba a orologeria, pericolosissimo a lungo termine. Se la discussione fosse continuata, avrebbe probabilmente finito per cedere a qualsiasi richiesta.

-Soluzione provvisoria.
-Uhm – Antonio vedeva uno spiraglio gastronomico aprirsi all’orizzonte.
-Separati ma uguali.
-Richiama un po’ le leggi razziali americane.
-Uffa.
-Spiegati meglio.
-Semplice: quando noi non ci siamo, rimangono in stanze separate.
-Ma Filippo ha bisogno di spazio Lisa, dai!
-Anche Botolo se è per questo, ma magari uno può stare in una stanza e l’altro avere accesso al resto dell’appartamento.
-Mah...
-Lasciami finire.
-A giorni alterni – tagliò corto Antonio.
-A giorni alterni – concluse Lisa.
-Affare fatto?
-Affare fatto.

Si strinsero le mani soddisfatti.

-Hai fame Lisa? Ieri ho comprato delle fettine di vitello.
-Scusa Antonio, ma le ho mangiate a pranzo. Se vuoi ci sono i resti delle lasagne bruciate di domenica in frigo. Te le metto nel microonde?

Antonio non ebbe la forza di reagire. Prese la sedia, si sedette, appoggiò la testa sul tavolo e chiuse gli occhi. Aveva adottato la stessa posizione di Filippo, faceva venire il magone di tristezza.

-Scherzo, le fettine sono già pronte, basta riscaldarle.  

lunedì 2 febbraio 2015

Lo zen e l'arte del pranzo di Natale

E’ la vigilia di Natale e ti mancano ancora tre regali: quello per tuo fratello, quello per tuo padre e quello per tua cognata. Sono le dieci di mattina e gli orsi polari stanno giocando a tressette nel parcheggio sotto casa. I vetri del tuo appartamento sono ricoperti di un doppio strato di ghiaccio e la tua vita dipende da una caldaia difettosa.
Domani sarà il venticinque dicembre, il giorno più atroce dell’anno. I tuoi nipoti saranno nervosi e sovraeccitati, tua cognata, tuo fratello in crisi d’astinenza da Serie A e tuo padre in piena crisi di panico (in particolare se usare la tovaglia verde o quella rossa). Tu cadrai probabilmente in una depressione suicida verso le sei di sera, che coincidono di solito con la fine del pranzo, poco dopo il triplice ammazzacaffé e prima della lavanda gastrica.
Tranquillo, non farti prendere dalla disperazione. Natale è domani, oggi c’è ancora tempo per lo stress da vigilia, una battaglia navale per trovare parcheggio e la lotta grecoromana al supermercato. Ti tuffi nell’armadio della tua stanza in cerca della tua armatura medioevale, dell’alabarda spaziale e dello scudo atomico, che ti aiuteranno nella tua missione eroica. Trovi solo un berretto di lana, dei guanti bucati e una sciarpa rosa.
OK, ce la possiamo fare, ti dici chiudendo con circospezione la porta dietro le spalle. I nemici sono dappertutto, la prudenza non è mai troppa. Adesso usciamo, compiamo la missione e rientriamo prima che la tempesta cosmica ci colpisca con i suoi raggi gamma, ti rassicuri scendendo le scale. Apri la porta, ti getti fuori e affronti la forza degli elementi scandendo il tuo urlo di battaglia ninja. La tua armatura di riserva ti sta proteggendo a sufficienza per permetterti di arrivare al garage. Proprio in quel momento ti accorgi che ti sei dimenticato le chiavi della macchina. Cazzo! Batti in ritirata strategica e ritorni alla base.
Devi fare un enorme sforzo di volontà per affrontare di nuovo il campo di battaglia. Stai quasi per decidere una ritirata definitiva quando la vicina di casa, l’ottantenne nonna Elisa, esce dalla sua tana seguita da una folata di aria dalla temperatura approssimativa di sessantacinque gradi centigradi. Ti chiede se la puoi accompagnare al centro commerciale. Puoi scegliere tra mettere le dita nella presa della corrente oppure accettare. La decisione è più difficile di quello che sembri, ma finisci per dire di sì prima dello scadere del gong.
Adesso sei seduto in macchina a meno settantadue gradi. Le tue gambe sono a malapena capaci di schiacciare i pedali, le mani sono attaccate al volante con l’Attack, la condensa del tuo fiato genera delle nuvole di vapore così grandi che quasi non vedi il camion della Melegatti che ti sta tagliando la strada. Nonna Elisa inizia a farti una filippica natalizia sulla prudenza al volante – in particolare in condizioni di strada ghiacciata – e una dettagliatissima lista degli incidenti stradali dal 1923 a oggi. Non capisci come possa non avere freddo, ma ti rendi conto che nonna Elisa accumula calore come i cammelli accumulano acqua. Il suo corpo attualmente ha una temperatura di 54 gradi. Il calore stimola la logorrea. Nonna Elisa non tace un secondo in tutto il tragitto fino al centro commerciale.
La Pachamama cosmica ti fa vincere la lotteria e parcheggi il tuo catorcio  su un’aiuola, con buona pace delle stelle di Natale falcidiate dalla causa di forza maggiore. Fai scendere la vecchia assicurandoti che abbia autonomia termica sufficiente e le dai appuntamento un’ora dopo, sperando che si perda tra la folla. La vedi sparire dietro di te, inghiottita da una massa di Spenderoxaptors: una razza intergalattica di trogloditi carrellomuniti che hanno eletto il consumismo a loro ragione di vita. Sono armati di fucili automatici a cui si possono attaccare dei caricatori di carte di credito che permettono l’acquisto a ripetizione. Il modello è una riadattazione di un progetto pilota sviluppato negli annni quaranta dall’ingegner Kalashnikov, e le carte fanno anche bum bum quando si digita il codice segreto.
Ti muovi per i corridoi del supermercato con atteggiamento panottico, non lasci che un solo centimetro quadrato di prodotti sfugga al tuo sguardo. Come Terminator, analizzi oggetti animati e inanimati con velocità e precisione supersoniche. Le tue cornee sono i tuoi Google Glasses. Riesci a scovare l’offerta speciale tre-per-due anche quando un nemico ha nascosto a proposito il cartello. I tuoi occhi laser riescono a decifrare il codice a barre. Ma hai un problema. Devi comprare degli affettati e un ostacolo insormontabile si sta infrapponendo tra te e gli anelati prosciutti. C’è un muro formato da materia organica rivestita da un misto di tessuti sintetici e naturali. Alcuni respirano ancora.
Il numero indicato dalla lavagna luminosa è tredici, quello che hai in mano è ottantanove. In mezzo settantasei signore di mezza età che cucineranno il cenone per ventidue persone ciascuna, per un totale di milleseicentosettantadue bocche da sfamare. Ricorri al piano B. Fai il resto della spesa aspettando che il contatore arrivi a ottantanove, sperando nella morte per inedia di una parte dei militanti nelle fila nemiche. Ti dirigi verso il banco della carne e devi evitare un nanerottolo vestito da puffo che vuole assolutamente assaggiare il sapore magnetico delle ruote del tuo carrello. Il proprietario dell’animale umano è indaffarato a svaligiare il banco del pesce. Allontani l’intruso, indicandogli una piramide di ovetti Kinder che si trova in direzione sud-sud-ovest. Attratto da altre sirene che ne deviano la traiettoria verso nord-est, lasci che si perda nei meandri del supermercato. Non provi rimorso.
Fettine di maiale senza osso, un pezzo di manzo con osso, due petti di pollo, un pezzo di coda e mezzo cappone. Ti manca ancora mezzo chilo di parmigiano, diciotto uova, due chili di farina, olio d’oliva, carote, sedano e noce moscata. Ci aggiungi un panettone Melegatti che è arrivato con il camion che voleva la tua morte, ma non provi più rancore. Costa solo due euro e novantanove, l’offerta promozionale è sufficiente per raggiungere la pace cosmica.
Sessantaquattro. E’ evidente che se vorrai la fetta di mortadella senza pistacchi tagliata grossa e due etti di prosciutto crudo da cottura, dovrai rimanere fino all’ora di chiusura, sperando che le locuste stellari abbiano lasciato almeno qualche briciola nel banco dei salumi (improbabile). Ti aggiri con l’aria di un marito in attesa del parto del suo primogenito e non lasci che neanche un millimetro di unghie sia risparmiato dai tuoi denti aguzzi di Guerriero di Orione.
Poi noti che una delle locuste si è distratta causa discussione troppo concitata sulle nuove aliquote fiscali e ha lasciato inavvertitamente cadere il biglietto con un numero di venti cifre inferiore al tuo. Ti avvicini al tesoro e lo nascondi col piede. Poi fingi di essere claudicante e trascini la gamba irrigidita lontano dalla locusta verbofila. Recuperi il biglietto e prendi le scorte necessarie prima che la vittima scopra di essere stata derubata.
Decolli con il tuo carrello pilotandolo meglio di Ian Solo in Guerre Stellari, con il vantaggio di non dover parlare con un mostro peloso che emette solo suoni incomprensibili. La barriera delle casse è invalicabile. Centinaia di operai intergalattici stanno operando una complessa catena di montaggio composta da cinque fasi consecutive: 1. Caricare la spesa sul rullo, 2. Aspettare che la commessa passi il codice a barra sul lettore ottico, 3. Mettere la spesa nelle borse, 4. Pagare il dovuto, 5. Scomparire al più presto.
Gli operai sono sorvegliati a distanza dai truci Vigilantes del pianeta Protector che assicurano che lo sforzo bellico vada a buon fine. Molti dei proletari sono sfiniti dal lavoro massacrante, hanno occhiaie profonde e i segni della pellagra. Altri devono gestire al tempo stesso neonati nucleari, cellulari vibranti, tablet luminosi, un pacco di buoni sconto e mogli rompiballe. Alcuni soccombono sotto lo sforzo inumano, con la salvezza a portata di mano. Quello di fronte a te stramazza a terra poco dopo aver pagato, con lo scontrino già in mano. Causa decesso, gli vengono detratti duecento punti dalla carta fedeltà Amici delle Stelle. Il cadavere viene efficientemente eliminato dal servizio di pulizia operato da una cooperativa solidare.
Ce l’hai fatta. Emetti un grido di gioia che ti si strozza in gola. Avevi detto a nonna Elisa di farsi trovare pronta all’uscita dopo un’ora e ne sono passate tre. Te la immagini già solidificata in una stalagtite di ghiaccio, oppure sbranata dai lupi mannari che infestano il parcheggio. Stai già per dirigerti verso il cartello “Reception” per effettuare un disperato appello pubblico, che scorgi i capelli grigio-azzurri di nonna Elisa. E’ seduta nel mezzo della bolgia di borse, stelle lucenti, borsette, cappotti, babbi natali, cappelli, ombrelli, renne, passeggini, scatoloni, regali e anche un cane con l’impermeabile. Sembra immune al caos che la circonda e sta bevendo un cappuccino seduta ad un tavolino nel centro esatto del tornado commerciale. Sembra Calindri nella pubblicità del Cynar. Quando ti vede dice Contro il logorìo della vita moderna.
Recuperi la vecchia che – causa temperatura corporea nettamente inferiore alla media – inizia a parlare al rallentatore come il Maestro Yoda. Anche le concordanze tra verbi, sostantivi e aggettivi non sono il massimo, ma pensi che possa sopravvivere fino al ritorno alla sua tana.
Missione compiuta. Nonna Elisa respirava ancora quando l’hai salutata. L’inventario degli acquisti è positivo, nessun ingrediente è dato per disperso. Soprattutto, il tuo cellulare è muto, nessuno ti ha cercato. Ringrazi il karma e il lato oscuro della forza.
Guardi l’orologio, è ora di incominciare. Ma non c’è fretta. Prima ci vuole un po’ di musica. Vai verso lo stereo, scegli un CD e schiacci play. Le note di un pianoforte zittiscono i rumori di clacson che vengono dalla strada. Ti sembra di vedere le dita agili e leggere di Stefano Bollani che danzano sulla tastiera mentre suona Falando de Amor. I tuoi piedi battono il tempo e accompagnano la musica spingendo dolcemente sui pedali. Non sai di esserlo, ma sei quasi felice.
Muovendoti al ritmo sincopato della musica, tiri fuori la carne, tagli la mortadella a strisce sottili, gratti il parmigiano, tagli il pollo e il maiale. Poi, come un alchimista medioevale che abbia scoperto la pietra filosofale, componi una sinfonia di sapore che per i mortali ha il nome di “ripieno”. Ogni tanto ti fermi, assaggi, mediti. Come Michelangelo, osservi la tua opera e apporti leggere correzioni cromatiche – qui un po’ di bianco parmigiano, lì un po’ di rosa mortadella – finché non raggiungi la perfezione. Quando hai finito il ripieno, apri una bottiglia di Raboso e ti servi una modica quantità, che bevi con parsimonia monacale.
Passi alla seconda fase. Recuperi l’asse di legno che avevi sepolto l’anno prima e ti assicuri che sia ancora in buono stato. Un esame al carbonio quattordici rivelerebbe che quel legno ha otto milioni di anni, perché quell’asse è stata di proprietà della bisnonna della tua trisavola, prima di essere stata trasferita in eredità da una generazione all’altra. Tu l’hai ricevuta da tua madre, che ti ha eletto a depositario del segreto di famiglia.
Prendi un grande coltello e raschi i residui di farina che sono rimasti dall’ultima utilizzazione. Ti assicuri di usare la parte giusta della tavola (quell’altra è utilizzata per i biscotti e in genere presenta delle macchie di burro). Con la precisione di un farmacista, misuri cento grammi di farina 00 per ogni uovo che userai. Decidi di iniziare a impastare dieci uova. Sai già che non saranno abbastanza e che ne aggiungerai almeno altre quattro, ma ormai è una tradizione. Ogni anno inizi con dieci uova per renderti conto che c’è ancora ripieno, ed è un peccato lasciarlo lì.
Formi un piccolo vulcano con la farina. All’interno del cratere ci metti le uova, poi condisci il tutto con un goccio di olio extravergine d’oliva. Con le punte delle dita mischi una parte di farina con le uova, facendo attenzione a non creare una breccia nel muro di contenimento. Sarebbe imperdonabile fare uscire una parte dell’albume sulla tavola di legno. Con molta pazienza aspetti che il liquido assorba il solido per dare forma a una nuova creatura gialla dalla consistenza di plastilina.
Con il grosso coltello tagli un pezzo di pasta e lo appiattisci con l’utilizzo di un mattarello della stessa epoca della tavola. A causa di varie vicissitudini, la superficie del mattarello è irregolare e la sfoglia che ne viene prodotta non è perfettamemente omogenea. Un osservatore esterno giudicherebbe tale elemento come un’evidente imperfezione, ma la tua vasta esperienza in materia ti permette di apprezzare l’unicità e l’intrinseca qualità del prodotto del tuo lavoro. Nessuno al mondo potrebbe riprodurlo con esattezza. Stai costruendo uno Stradivari e sei l’unico a saperlo.
Tagli la sfoglia in rettangoli di circa due centimetri per tre. Quando hai tagliato tutto, prendi una forchetta e collochi una nuvoletta di ripieno nel centro di ogni rettangolo. Fai attenzione perché ci sia una proporzione tra la dimensione dei rettangoli (visto che sono tagliati a mano sono tutti leggermente differenti) e la quantità di ripieno. Quando hai finito, ogni rettangolo di pasta ti appare come un piccolo berretto giallo dotato del suo ponpon rosa. Non sai dipingere, non sai scolpire, non sai suonare uno strumento, non sai fare fotografie, sai a mala pena recitare il rosario; la provvidenza non ti ha dotato di alcuna capacità artistica, ma in questo momento ti senti la Carla Fracci della cucina.
E’ venuto il momento. Hai aspettato trecentosessantacinque giorni per fare questo gesto e rivivi ognuno dei giorni passati nell’attesa. Prendi il primo rettangolo. Lo posizioni sul palmo della mano sinistra. Lo pieghi facendo combaciare i lati corti e formando così un rettangolo più piccolo. Il ripieno appare ora come una cisti avvolta tra due lembi di pelle. Schiacci i due angoli in prossimità del ripieno. Prendi l’angolo sinistro tra il pollice e l’indidce delle mano sinistra. Fai lo stesso con l’altro angolo e la mano destra. Con gesto veloce, preciso e sicuro – ma che non riusciresti mai a descrivere a parole – finisci l’opera.

Ora non sembra più una cisti tra due lembi di pelle, ma una piccola testa con il bavero della giacca rialzato. E’ un piccolo extraterrestre in provenienza dalla galassia del piacere. Altri lo chiamerebbero, semplicemente, “tortellino”.

mercoledì 14 gennaio 2015

Amore animale (racconto)

Caro Leonardo,

Ogni ora che passo senza vedere i tuoi occhi e sentire il tuo odore sono altrettante pietre che si accumulano sul mio petto e mi impediscono di respirare. Da quando la mia famiglia mi ha proibito di vederti – anche solo in lontananza – l’orizzonte è svanito, inghiottito dal vuoto. Mi ritrovo a camminare senza scopo. Disegno dei cerchi concentrici in uno spazio rettangolare che non ha uscite, solo sbarre che mi impediscono di venire verso di te. Ma più che dei pezzi di metallo scrostato e arrugginito – mio adorato Leonardo – chi mi sta tenendo prigioniera sono le mie sorelle. Margherita, Stefania e Monica si sono traformate in tre sadiche carceriere e io sono la loro unica detenuta, impotente, su cui sfogare il loro desiderio represso di potere. Non sono cattive le mie sorelle, o almeno non lo erano fino a poco tempo fa. Sono solo miopi. Loro riescono a vedere solo il presente e si scordano immediatamente il passato. Fin da piccole hanno sempre scelto di reagire invece di agire, mangiando quando si dava loro da mangiare e bevendo quando c’era acqua da bere. Loro non usano punti di domanda, ma solo degli enormi punti esclamativi, colorati e sonori. Non hanno dubbi, perché ciò equivarrebbe alla morte. Il loro innato istinto di sopravvivenza le tiene lontane dalle decisioni ragionate e coscienti, cullandole nelle certezze delle verità assolute, delle reazioni comandate, necessarie e obbligate.
Questo lo so – Leonardo, amore mio – perché in fondo anch’io, fino a poco tempo fa, ero come loro. Ubbidivo agli ordini, masticavo lentamente, non facevo rumore. Forse se non ti avessi visto passare quel giorno sarei rimasta la Carolina di una volta, attraversando il tempo come il sasso che giace in uno stagno, lasciando che le stagioni decidano se è tempo di emergere o di rimanere coperto dall’acqua. Ma il destino per me  ha deciso diversamente. Il destino ha avuto la forma della mano di un bambino che ha preso quel sasso e lo ha fatto rimbalzare sulla superficia piatta dello stagno. E quel sasso ha preso a saltare e atterrare sull’acqua, per poi schizzare via di nuovo, in un moto infinito di salti e cadute. Quel sasso, Leonardo, è il mio cuore.
Le mie pupille osservano la polvere che cosparge il pavimento, riuscendo a distinguere un granello da ogni altro, ma i mie occhi vedono la tua lunga chioma bionda. I miei timpani ascoltano le grida del mercato rionale – le urla dei bambini che giocano, quelle di rimprovero dei genitori, l’invito a comprare del venditore di cocomeri e gli annunci del circo – ma le mie orecchie sentono la tua voce profonda e cavernosa. Le mie narici percepiscono odori quotidiani di cibo e di gente, il polline del gelsomino e la fragranza delle agavi, ma il mio naso sente la tua essenza virile e selvaggia. Nulla ha più senso senza di te. Come posso nutrirmi, muovermi e cercare di dare un senso alla mia esistenza, se non posso accerezzare il tuo corpo, addormentarmi contro la tua schiena, baciare i tuoi bellissimi occhi color nocciola? Sarebbe come mangiare una minestra insipida dopo avere assaggiato una goccia del nettare degli dei. Preferisco il digiuno. Preferisco morire.
E’ paradossale in fondo – mio caro Leonardo – che la ragione stessa della mia segregazione, ovvero proteggermi da te, sarà la causa della mia fine. “Lo facciamo per il tuo bene”, “ti farà solo del male”, “è pericoloso”; le mie sorelle non sanno dire altro. Non sono che dei pappagalli dal collo troppo lungo e dalla vista troppo corta. Con loro è impossibile discutere e ragionare. Non perché non siano sufficientemente intelligenti, ma semplicemente perché loro non ti vedono per quello che sei. I loro occhi sono accecati dalla cataratta della paura e dalla nebbia del pregiudizio. Mi viene quasi da ridere se ripenso al passato, a quando anch’io – vedendo i tuoi fratelli – correvo a nascondermi tremando di terrore, e non sollevavo la testa fino a quando erano scomparsi all’orizzonte, camminando fieri e baldanzosi come soldati in file indiana. Quante volte sono scivolata in preda al panico e ho rischiato di cadere, troppo ansimante per emettere anche solo l’ombra di un suono, la parvenza di un sibilo.
Tu mi hai cambiata e per sempre. Non posso tornare ad essere quella di prima, la Carolina un po’ ebete ed assente. Ma mi impediscono di diventare ciò che sento ormai di essere: la tua futura moglie. E in questo limbo senza fine, grigio come il suolo lunare, sterile come un deserto, mi ritrovo ad aspettare la mia fine. Il sasso continua a rimbalzare sullo stagno, ma la forza che lo anima è sempre meno intensa, ogni balzo è più corto del precedente, meno alto del precedente. Tra poco la sua inerzia non gli permetterà più di continuare il suo moto e, dopo un ultimo slancio, si spegnerà per sempre, condannandolo ad affondare nel torbido fondale melmoso. Sarà l’ultimo battito del mio cuore. E quel battito, Leonardo, sarà solo per te. Unico e pieno di lacrime d’amore.

Con tutto il mio cuore

Carolina



Gent.le Sig.na Carolina,

Ho letto con particolare interesse la sua e non le nascondo una certa sorpresa, sia riguardo la forma, che il contenuto. Non mi fraintenda, ho enormemente apprezzato tanto lo slancio emotivo che le immagini evocative che lei ha utilizzato, nonché la passione che anima il suo testo. Fatti i dovuti paragoni, la sua prosa ha rievocato letture della mia infanzia, in particolare “Cime Tempestose” di Emily Brontë. Non nascondo una certa ammirazione per la sua determinazione, la predisposizione al sacrificio e un indubbio coraggio nell’affrontare di petto le consuetudini stabilite e le regole sociali.
Fatto salvo quanto sopra, mi preme sottolineare come tali regole – per quanto in essenza arbitrarie – rappresentino un male necessario per preservare la nostra società dall’implosione in un’anarchia senza fine. I recenti avvenimenti di cui sicuramente Lei avrà sentito parlare – mi riferisco al deprecabile episodio di violenza cui si sono abbandonati vari membri del circo di cui facciamo parte – sono un chiaro esempio dei danni che possa causare l’assenza di un procedimento strutturato per la presa di decisioni e di una chiara gerarchia dei ruoli.
Non vorrei qui apparirle conservatore e pedante. La mia non è una requisitoria sui valori tradizionali e la perdita di identità delle giovani generazioni. La mia posizione è il frutto di una lunga riflessione sulla nostra condizione e il conflitto che dobbiamo gestire tra i nostri istinti e la realtà dei fatti. Alla sua spontaneità ed entusiasmo debordante, mi permetto di anteporre considerazioni di pura pragmatica, al costo si apparirle cinico.
Partiamo dai fatti. Lei, Signorina Carolina, appartiene alla specie Giraffa Camelopardalis, nata in cattività in una regione dell’Italia meridionale e addestrata a un numero circense che è stato introdotto a programma nel Circo Razzoli due mesi fa. Lei è per sua natura erbivora, ungulata artiodactyla, ruminante. Il suo principale sistema di preservazione della specie è la fuga, facilitata da una resistenza non indifferente che le permette di correre ad una velocità  relativamente sostenuta per un periodo prolungato di tempo.
Il sottoscritto, dal canto suo, appartiene alla specie Panthera Leo, nato in cattività presso lo zoo di Civitavecchia e da vari anni Leone Principale dello spettacolo creato e diretto dal Dottor Emilio Razzoli, proprietario dell’omonimo circo. Io sono per mia natura carnivoro, dotato di lunghie unghie retrattili e sono considerato in tutti i libri di zoologia come un “predatore alfa”, ovvero colui che si colloca all'apice della catena alimentare. La principale strategia d’alimentazione della specie a cui appartengo è la caccia, principalmente di ungulati, facilitata da una corsa molto rapida, ancorché limitata a distanze piuttosto brevi.
Avendo Lei dato prova di un’intelligenza superiore a quella associata alla sua specie – se non altro per quanto riguarda il lato emotivo – considero inutile addentrarmi in ulteriori approfondimenti etno-biologici che possano ulteriormente provare la nostra incompatibilità genetica.
Non le nascondo che anch’io, in gioventù, ho pensato di lottare contro le convenzioni sociali e di poter adottare un modo di vita diverso, più consono alla mie capacità intellettuali e alle mie aspirazioni spirituali. All’uopo avevo tentato una dieta vegetariana, integrando le proteine necessarie alla mia nutrizione con tofu che mi veniva fornito dal Maestro Rinzai Gigen, un equilibrista giapponese che all’epoca lavorava nel nostro circo. Oltre che per la difficoltà di produrre e/o acquistare tre quintali di tofu al giorno, l’esperimento fu accantonato per la mia incapacità di abbandonare la carne. Lo ammetto, è una deboleezza di cui non vado fiero. E’ un’onta che non riuscirò mai a lavare dalla mia coscienza. Con il tempo, tuttavia, ho imparato a vivere con i miei limiti e ad accettarli.
Prima di chiudere questa mia risposta, di cui spero Lei possa apprezzare almeno la franchezza, mi permetto di fare un’ultima osservazione. Lei, Signorina Carolina, ha un grande talento. L’ho guardata esibirsi a più riprese e mai in vita mia ho visto un numero circense di giraffe così bello e intenso. Inoltre – e spero che ciò non l’offenda – la trovo estremament attraente. Non le nascondo che il suo collo elegante mi ricorda l’armonia dei ritratti di Modigliani. Se fossi più giovane e più forte, avrei forse accetato la grande sfida che Lei mi propone, ma le considerazioni di cui sopra hanno una forza logica tale che devo reprimere il mio moto ideale e accettare i limiti imposti da Madre Natura. Non mi resta che augurarle di riprendersi presto e di incoraggiarla a continuare la sua promettente carriera artistica. La seguirò da spettatore privilegiato e da profondo conoscitore della realtà circense.
Rimango a sua disposizione per ulteriori chiarimenti, nonché – se Lei dovesse considerarlo utile – consigli pratici su come impostare la sua carriera futura, sia presso il circo di cui sono membro, che presso un altro istituto.
Augurandole pronta guarigione, Le porgo

Distinti saluti

Leonardo Leonardi
Capo Leone

Circo Razzoli

venerdì 19 dicembre 2014

Circolo virtuoso (racconto)


Carolina la giraffa si era innamorata di Leonardo il leone, un problema non indifferente, soprattutto per lei. Carolina era arrivata da due mesi, assieme alle sorelle Margherita, Stefania e Monica. Quattro nomi che valevano otto, perché indicavano sia la giraffa che l’equilibrista con cui faceva il numero. L’omonimia tra l’animale e la persona aveva generato non poca confusione nel Circo Razzoli, che già di suo aveva eretto il Caos a principio cardine della gestione. Più di una volta il direttore, il Signor Razzoli in persona, aveva urlato “portatemi Monica!”. E invece della brunetta dai capelli a caschetto e gli occhi a mandorla che era anche la portavoce del quartetto di equilibriste campane, appariva fuori dalla sua roulotte la giraffa Monica, che lo guardava con occhi beati, ruminando una manciata di fieno con grande piacere, facendo roteare la mandibola inferiore con regolarità certosina. Monica la salernitana, invece, era probabilmente intenta a litigare con le tre sorelle gemelle, una battaglia che conduceva da una vita, con cadenza quotidiana e grande dedizione personale. Le ragioni erano così varie da risultare ininfluenti: la lite sembrava il vero scopo – l’alpha e l’omega – di tutti i loro sforzi. Potevano litigare per delle ore, anche tutto il giorno, per giorni successivi, insultandosi e ricordandosi torti reciproci. Nella loro roulotte, che veniva sempre messa ai margini del campo a causa dei troppi decibel, si mangiava esclusivamente in piatti di carta, perché quelli di ceramica venivano usato come frisbee.
“Folli, folli, folli”, era il commento del Signor Razzoli, che si faceva chiamare Dottore benché il suo nome apparisse negli atti scolastici ufficiali solo fino alla terza media, probabilmente per un banale errore di trascrizione. Il Dottore, ultimo membro vivente di un’illustre stirpe di domatori di leoni – la Grande Famiglia Razzoli appunto – aveva ereditato il circo da suo padre, in seguito alla di lui morte avvenuta in tragiche circostanze due anni prima. Per tragiche circostanze bisogna fare riferimento allo sbranamento dello stesso a opera del leone Leonardo, già colpevole della morte di Rizzoli Stefano, fratello maggiore del Dottore ed erede designato per la continuazione dell’attività familiare. Nonostante la recidiva, per di più aggravata dall’illustre discendenza di entrambe le vittime, al leone Leonardo era stata risparmiata la vita. Non solo, era anche stato decisio di raddoppiarne la razione di carne a scopo preventivo.
Tanta clemenza aveva sollevato dubbi ed elucubrazioni all’interno del circo, il cui secondo pilastro gestionale era solidamente costruito sui pettegolezzi più indiscreti e le teorie complottistiche più fantasiose. Varie ipotesi furono elaborate per giustificare la permanenza del leone Leonardo tra i vivi. Una era che la morte del padre e del fratello del Dottore non era stata per nulla accidentale, anzi faceva parte di una macchinazione volta a eliminare, prima il concorrente all’eredità, e poi lo scomodo patriarca. A riprova di tale tesi, veniva portata la manifesta megalomania del Razzoli, associata a un’ambizione smisurata e a un cinismo leggendario. Un’altra tesi identificava invece il colpevole nella famiglia Bortolotti, anch’essa specializzata nella domazione di leoni e proprietaria dell’omonimo circo, principale concorrente della famiglia Razzoli. A supporto di tale ipotesi vi era la conclamata inimicizia tra le due famiglie, sfociata in passato in una faida violentissima che aveva lasciato tracce di sangue sulle piazze di mezza Italia. Tuttavia da oltre un secolo le due stirpi di domatori si erano limitate all’ingiuria reciproca e a qualche sporadica provocazione goliardica, come la produzione di poster in cui si vedeva un membro dell’altra famiglia mentre stava domando una gallina, un asino o un coniglio.
Ma l’ipotesi più accreditata era che Leonardo il leone in realtà fosse la reincarnazione felina di Gianbattista Eufebio Razzoli. Quadrisavolo del Dottore e iniziatore dell’augusta dinastia dei Razzoli, Gianbattista Eufebio Razzoli lasciò nel 1854 un promettente lavoro di impiegato postale ottenuto grazie a raccomandazione dell’arcivescovo di Venezia suo parente, per rincorrere la fama e la gloria onnipotente del domatore di leoni. Il ritratto di Gianbattista Eufebio veniva collocato all’entrata del circo appena il tendone veniva montato e molti degli artisti vi attribuivano poteri sovrannaturali. Spesso depositavano delle offerte, accendevano delle candele e facevano dei tipici rituali circensi per chiedere la grazia di guarire dal raffreddore o dal mal di schiena (il potere di Gianbattista Eufebio era conclamato in caso di colpo della strega). L’ipotesi della reincarnazione era stata formulata dalla decana del Circo Razzoli, Mariolina Biggetta detta Tutù, nonché fonte primaria di tutte le teorie complottistiche del circo, passate, presenti e future. Benché la fondatezza delle tesi di Tutù fosse spesso messa in dubbio – a partire dal suo stesso marito Antonio Martello – nel caso particolare la teoria aveva assunto un certo peso specifico, sia in virtù della recente conversione al buddismo del Razzoli, sia del fatto ormai conclamato che Tutù fosse l’amante del Razzoli stesso, all’insaputa del marito Martello, e dunque in possesso di informazioni privilegiate. Mariolina Biggetta aveva da tempo pensato di confessare al marito la storica relazione con il Dottore, ma si era trattenuta per paura che l’ira di Antonio Martello – estremamente collerico anche in condizioni normali – non sfociasse in una carneficina durante l’esibizione circense, in cui la Tutù svolgeva il ruolo della donna sfiorata – ma per il momento non ancora trafitta – da lunghi ed affilatissimi coltelli che il Martello fabbricava personalmente e affilava e con grande cura due volte la settimana, il martedì e il venerdì.
“Riunione di circo!”, aveva intimato il Dottore, cui piaceva vedersi come grande manager circense e adottava sistematicamente le tecniche di gestione apprese dalla lettura ripetuta di Come farsi sempre ubbidire dagli altri: la forza dell’autorità, il segreto del rispetto, libro intenso e profondo, capace di svelare le tecniche manageriali più efficaci e gelosamente custodite dai leader mondiale, incluso Barak Obama. Il Dottore era un devoto degli insegnamenti del Libro e non riusciva a credere che fosse uscito da catalogo, attribuendo il fatto alla cecità umana e a una politica editoriale riprovevole.
“Qui c’è bisogno di un breistorning”, aveva aggiunto rigirando con una mano il baffo alla Dalì che si era fatto crescere con tanta cura e che spalmava regolarmente di pomata per renderlo più appuntito e splendente. Con l’altra mano aveva indicato la roulotte comune, luogo deputato ad accogliere le riunioni dei circensi, piuttosto rare prima dell’avvento del Libro, ma generalmente ad alto contenuto d’intrattenimento. Aveva ripetuto breistorning tre volte ed era rimasto con l’indice puntato verso la roulotte, una posa che a lui doveva ricordare quella di Napoleone durante la battaglia delle piramidi e che invece al clown Giuseppe richiamava il film Moby Dick: l’immagine di Gregory Peck attaccato alla schiena della grande balena bianca che agitava ormai incosciente il braccio chiamando i marinai verso la loro fine.
Il clown Giuseppe – da tutti considerato un intellettuale – era l’unico oltre al Dottore che fosse mai stato visto in compagnia di un libro, che aveva addiritura la cura di cambiare una volta finito. Giuseppe era il primo clown nella storia del Circo Razzoli a non essere in cura da uno psicanalista, a non aver mai visto uno psicologo, né un cartomante, né un indovino. Non aveva mai tentato il suicidio, né mangiando quintali di zucchero filato come il suo predecessore diabetico, né gettandosi sotto le zampe degli elefanti come quello precedente. Stranamente non affetto da alcun tipo di depressione, il clown Giuseppe era al contrario un elemento di stabilità emotiva nel Circo Razzoli, il cui terzo pilastro gestionale si basava su incertezze croniche, dubbi esistenziali e – occasionalmente – crisi di panico incontrollato. In mancanza di meglio, il clown Giuseppe era diventato suo malgrado una specie di punto riferimento dei circensi, che si accomodavano nella sua roulotte dopo lo spettacolo e si lasciavano andare a divagazioni e aneddoti personali, confessioni  e pentimenti, bevendo litri di caffé e mangiandogli tutti gli m&m’s senza chiedergli il permesso. A differenza della Tutù, il clown era una tomba e niente di quello che entrava dalle orecchie usciva dalla sua bocca, con o senza il rossetto. Giuseppe non capiva perché riuscisse a genere nei suoi colleghi un tale irrefrenabile desiderio di spalancargli le porte del loro animo. Certo sapeva ascoltare, o meglio si limitava ad annuire senza interrompere i fiumi di parole che venivano riversati nelle pause tra un m&m’s e l’altro. Certo anche che si interessava veramente a quello che gli dicevano, tanto che il problema altrui diventava, in fondo, anche il suo. Certo infine che il suo ego non creava eccessive barriere: un clown, in fin dei conti, non fa paura a nessuno, al massimo a se stesso. Tuttavia egli riteneva che tali ragioni non fossero sufficienti a spiegare il fenomeno nella sua interezza. Dopo molta riflessione si era convinto che la vera spiegazione stesse nel cerone. Era quella patina bianca che gli restava immancabilmente sulla faccia o sul collo, nonostante tutta la cura con cui si struccava, che scatenava la voglia di confessoine dei circensi. Perché loro non parlavano a lui come persona, ma al circo stesso come entità atemporale: fonte e scopo della loro vita.
Il ruolo di confidente privilegiato e il rispetto che vi era associato aveva messo il clown Giuseppe nel mirino del Dottore, sempre più geloso della sua considerazione all’interno del gruppo. Secondo una delle confidenze telodicomatunondirloanessuno della Tutù, Razzoli stava covando un astio profondo e ribollente contro Giuseppe, appena mascherato dai suoi comportamenti di maniera, che presto sarebbe scoppiato in tutta la sua violenza. Nonostante Giuseppe non facesse nulla per per avere tale ruolo – o forse proprio a causa di ciò – il Dottore aveva intrapreso un’intricata campagna macchiavellica contro di lui, per metterne a nudo la presunta malvagità, l’incapacità professsionale, la plateale slealtà e l’innata disonestà. Fino a quel momento la campagna non aveva dato esiti di nota, a causa del comportamento irreprensibile del clown, che nel suo lavoro era paradossalmente molto serio.
La troupe si ritrovò fuori dalla roulotte principale e il Razzoli stava già per iniziare il lungo e pomposo discorso d’apertura,  un monologo interminabile generalmente ascoltato solo dalla Tutù, quando le sorelle siamesi – che in realtà erano cinesi – presero inaspettatamente la parola, o più precisamente urlarono in perfetta stereofonia “manca aclobata, manca aclobata”. Ad un’attenta verifica dell’Uomo Cannone – che a dispetto dell’apparenza da troglodita aveva uno spiccato senso sell’osservazione e una capacità analitica non indifferente – si certificò l’assenza ingiustificata di Rodion Romanovič Raskolnikov, alias Piuma Volante. Il russo era un acrobata affetto da una rarissima malattia – genetica per alcuni, psico-somatica per altri –  che gli causava forti crisi di vertigini quanto scendeva dal trapezio. Per ovviare a tale problema aveva deciso – come in un racconto di Kafka – di vivere perennemente appeso in aria, organizzandosi in maniera astuta per ricevere rifornimenti di cibo ed espellere i residui fisiologici. A differenza del racconto di Kafka, veniva tirato giù a forza quando era ora di smontare il tendone e per ovviare alle crisi di vertigini gli veniva data una cassa di vodka, a suo dire unico rimedio alla grave malattia da cui era affetto.
Il Dottore non riuscì a nascondere tutta la sua personale contrarietà per l’osservazione anticlimatica delle siamesi cinesi, ma si ricordò dei precetti enunciati nel Libro, con particolare riferimento al capitolo dedicato all’importanza dell’inclusione dei sottoposti nel processo decisionale caratterizzato da awareness e ownership (entrambi termini sottolineati con la penna rossa) e non se la sentì di continuare senza Piuma Volante. Ordinò a Giuseppe di andarlo a chiamare. Quando questi gli fece presente che Piuma si muoveva solo con il suo trapezio e suggerì di organizzare la riunione direttamente nel tendone, Razzoli ebbe un moto di stizza che causò un impercettibile movimento dei baffi artistici, che si raddrizzarono come la coda di un gatto che sta per graffiare. Pensò che era venuto il momento di accusare il clown pubblicamente di insubordinazione, ammuntinamento, tradimento e altri gravi delitti di cui si era ripetutamente macchiato. Ma notando che tutti assentivano, chi con un movimento della testa, chi a parole e chi – come il nano Brontolo – soffiandosi rumorosamente il naso, fece di necessità virtù e prese la testa della truppa marciando con passo deciso verso il tendone.
Il tendone del Circo Razzoli era da tutti considerato qualcosa a metà tra un vecchio amico e una persona di famiglia. In un ambiente in cui non si facevano grandi distinzioni, né a livello di genere, né di origine sociale, né addirittura tra esseri umani e animali, era normale che un tendone potesse rientrare a pieno titolo tra i membri della famiglia, e così era. Il tendone aveva un nome (Michelone), delle idiosincrasie (odiava il Veneto orientale e si afflosciava ogni volta che il circo si fermava a Jesolo), delle gelosie (più di una corda di sicurezza aveva misteriosamente ceduto quando veniva usata da uomini che corteggiavano la contorsionista), delle preferenze etniche (vietato far entrare sudamericani), una passione per i bambini biondi con i ricci (il poster della Nutella non cadeva mai a differenza di tutti gli altri), un odio per i pop corn e l’odore di olio bruciato (la macchina dei pop corn aveva più menomazioni di un mutilato di guerra) e molti aneddoti da raccontare. Privo di parola, almeno per i neofiti del circo, comunicava attraverso il rosso sbiadito e il bianco sporco della tela, cui si alternavano rattoppi multicromatici dovuti all’usura e al ripetersi inteminabile di montaggi e smontaggi.
I circensi passarono per la grande apertura di Michelone sotto la scritta Circo Razzoli e a fianco al ritratto di Gianbattista Eufebio Razzoli. Entrarono nello stesso ordine che avevano nella rassegna di fine spettacolo, quando tutti gli artisti si presentavano di fronte al pubblico, facendo il giro della pista e poi uscendo tra gli applausi, quando ce n’erano. Dopo il Dottore fu il turno delle sorelle campane (per una volta senza giraffe e quasi senza litigare), delle siamesi cinesi, del giocoliere Bartezzaghi che aveva dato fuoco alle sue clave e le faceva roteare sulla testa del nano Brontolo che non era affatto contento, della contorsionista thailandese aggrappata con le gambe alle spalle dell’Uomo Cannone, del corpo di ballo al completo (ovvero quattro pesone), da Antonio Martello seguito da Tutù e da Inverso, l’uomo che camminava sulle mani. Chiudevano la processione il clown Giuseppe e Denise l’addestratrice di gatti, che in molti vedevano come una coppia naturale. Un amore quasi obbligato, che – secondo fonti non verificate – non era sfociato solo a causa della terribile allergia al pelo di gatto di Giuseppe, per cui non era stato ancora trovato rimedio. Piuma Volante li aspettava appollaiato sul suo trespolo, ancora con il costume di scena cosparso di lunghe piume bianche e grigie che lo faceva assomigliare a un barbagianni.
Razzoli aspettò che tutti si accomodassero, chi sulle panche degli spettatori, chi per terra, quest’ultimi facendo particolare attenzione a scansare le enormi cacche di elefante che erano ancora dissemnate a macchia di leopardo. Ci volle un po’ di tempo prima che il rumore di passi e le voci di genti diventasse un normale brusìo di sottofondo, per poi evaporare in un silenzio sufficientemente formale perché il Dottore si decidesse a parlare. Si era procurato il microfono delle grandi occasioni, quello a forma di cono di gelato con le palline colorate e la panna montata finta. Ma appena lo accese partì la musichetta del circo a tutto volume ta ta ta da da dan da da ta ta ta da da dan da da e – per un riflesso pavolviano incontrollabile oltre che incondizionato – tutti si misero in moto  come se fossero le figurine di  un carrillon per bambini, chi sventolando i costumi impumati e chi mettendosi a girare sulla testa. La confusione era generale, perché ognuno si esibiva senza badare a quello che facevano gli altri, in una specie di baccanale circense improvvisato.
Se Razzoli avesse mantenuto una prospettiva d’insieme e avesse osservato con attenzione e sufficiente distacco la scena, si sarebbe reso conto che quel movimento spontaneo e incontrollato, vivente e spumeggiante, era probabilmente lo spettacolo più bello che il Circo Razzoli avesse mai mostrato durante l’intera sua venerabile esistenza. Ma si dà il caso che il Dottore fosse troppo indispettito dall’improvvisa anarchia e mancanza di rispetto per la sua leadership instituzionale per apprezzare il valore artistico della performance involontaria dei suoi circensi. Vedendolo sull’orlo del baratro isterico, il clown Giuseppe si tuffò a volo d’angelo sull’altoparlante come faceva nel suo numero acrobatico e staccò la spina, congelando il movimento dei suoi colleghi.  Rimasero immobili, cristallizzati in una posizione innaturale come nei film in cui, per un attimo, il tempo si blocca. Assieme all’immobilità giunse il silenzio e Razzoli fu costretto a ringraziare il clown – suo malgrado e a denti strettissimi.
“Siamo qui riuniti”, iniziò con tono papale, “perché abbiamo un problema”.
La Tutù annuì prontamente. La presenza di un problema la galvanizzava, ancora di più se in assenza  di una soluzione e possibilmente associato a conseguenze catastrofiche. Non era sprezzo del pericolo come in molti pensavano, forse facendosi influenzare dal lavoro di moglie del lanciatore di coltelli. No, la Tutù era semplicemente attratta, fin dall’infanzia, da tutto ciò che di più infausto ci potesse essere: disgrazie, malattie terminali, tragedie umane, cataclismi naturali, morte e distruzione. Doveva ricevere la sua dose giornaliera di notizie funeste, e non mancava un solo telegiornale. Aveva una predilezione particolare per gli incidenti aerei e si era abbonata al canale National Geographic solo per avere accesso a degli splendidi documentari che illustrano con dovizia di particolari, simulazioni grafiche e interviste ai sopravvissuti, tutte le possibili cause che possano contribuire ad abbattere un aereo in volo, possibilmente sopra un’area densamente popolata, causando disastri a catena. Quando le disgrazie non avvenivano, oppure si verificavano in luoghi troppo lontani per poterne sentire l’effetto, si sentiva obbligata a compensare con il suo personale intervento. Dove non c’era un problema, si poteva sempre crearlo.
“E il problema è...”
Il Dottore si fermò a riflettere. Nella concitazione generale aveva improvvisamente dimenticato la ragione per cui aveva organizzato il breistorning. E più si sforzava di ricordare, più la sua memoria retrocedeva.
“Il problema è...”, ripeté per guadagnare un po’ di tempo. Ma non a sufficienza, perché la memoria rimase bianca, candida come un nevaio d’alta montagna. Non riuscì a continuare. In molti pensarono che stesse applicando una nuova tecnica di management tratta da Come farsi ubbidire dagli altri: la forza dell’autorità, il segreto del rispetto e abbozzarono uno sguardo d’intesa, oppure annuivano pensierosi. Solo la Tutù si era resa conto che Razzoli si era letteralmente imbambolato, quasi fosse caduto vittima di una seduta di autoipnosi: rigido e immobile come un’asse da stiro. Avrebbe potuto aiutarlo, fargli un cenno, oppure ricordargli a voce la ragione per cui la riunione era stata organizzata, ma non lo fece. Vederlo in piedi, con la giacca rossa e i bottoni d’orati, il trucco attorno agli occhi, il cappellone nero che nascondeva la calvizia incipiente, gli anelli d’oro alle dita, i pantaloni troppo stretti e i baffi che avevano perso la consueta baldanza, le dava un piacere intenso, il piacere del ridicolo altrui.
“Il problema è che non ci paghi”
La voce che proveniva dall’alto e l’accento russo lasciavano pochi dubbi sull’origne della lamentela. Piuma Volante era conosciuto per le sue rivendicazioni sindacali. La leggenda narrava che fosse discendente diretto di Trotski e che nelle sue vene scorresse senza sosta il più puro sangue bolscevico, almeno quando non veniva mischiato con il rimedio contro le vertigini. Il Russo era visibilmente contrariato e il suo trapezio oscillava irrequieto da una parte all’altra di Michelone. Per sottolineare le sue parole fece una serie impressionante di volteggi e salti mortali – tutti senza corda e senza rete di protezione – che avrebbero convinto il più scettico degli oppositori capitalisti.
“E’ vero, dacci i soldi Dottore. I soldi, ladro!”
Il volteggio era stato superfluo, non era necessario convincere nessuno. La questione dei soldi era una ferita costantemente aperta presso il Circo Razzoli e fonte di costanti mugugni e di innumerevoli spunti complottistici. C’era chi accusava il Dottore di non dichiarare parte dei ricavi, soprattutto quelli derivanti dallo zucchero filato e dalla vendita di fotografie, e chi invece lo accusava di non fare investimenti, obbligando Michelone – che ormai aveva più rattoppi di una bambola di pezza – a fare gli straordinari invece di potere andare in pensione nel paradiso dei teloni da circo, dove i bambini non fanno i capricci e i pagliacci non si tolgono mai il trucco, neanche per andare a dormire. Tutti si trovavano per una volta concordi sul fatto che la paga era da fame e le roulottes dei veri catorci.
La verità era per una volta molto più banale. Per il circo c’erano sempre meno spettatori, la concorrenza della famiglia Borlotti era spietata – il loro numero con i leoni che ballavano con i pattini a rotelle era un vero fenomeno – e i costi di girare per la pianura Padana con elefanti e tigri, leoni e giraffe era semplicemente proibitivo. Ma il senso dell’onore del Dottore non gli permetteva di ammetterlo, non solo pubblicamente, ma neanche a se stesso, per cui era ricorso a ogni tipo di stratagemma per occultare la verità, anche solo parzialmente.  
“I soldi, i soldi”, l’eco sembrava propagarsi all’infinito e in molti sospettavano che Michelone facesse la sua parte, usando la voce degli altri per esprimere la sua opinione.
“Smettete di lamentarvi buoni a nulla”. La risposta non era venuta dal Dottore, ormai ridotto all’impotenza, ma dalla Tutù, che un po’ si vergognava per averlo lasciato solo in balìa del gruppo.
“Taci, tu che ci vai a letto”.
La frase veniva dal basso e l’accento sardo costituiva un’ottima pista per identificare nel nano Brontolo il probabile proprietario intellettuale del pensiero.
“Cos’hai detto nano?”
La risposta non tardò ad arrivare e non fu necessario fare complicate illazioni per capire che Antonio Martello non aveva apprezzato.
“Che tua moglie se la fa con il capo, almeno un paio di volte a settimana, quando tu affili i tuoi coltelli”, rispose Brontolo, cui i concetti astratti stavano un po’ stretti e aveva la tendenza ad accompagnare le parole con dei gesti esplicativi. Stava ancora mimando una pratica sessuale a metà tra la fellatio e il cunnilingus che volò il primo coltello. Ma il nano era tanto basso quanto agile e soprattutto dotato di un’inesauribile capacità di sopravvivenza. Il coltello si conficcò nella panca di legno su cui era seduto e un secondo dopo Brontolo aveva già trovato rifugio in mezzo al gruppo, sapendo che Martello non avrebbe osato tirare coltelli nella folla.
“Il nano ha esagerato, ma ha ragione”, disse la contorsionista thailandese con la testa tra le gambe, proprio mentre Martello si stava calmando. Il ritorno di fiamma fu istantaneo, più veloce della bocca di un drago, anche se questa volta non se la prese con la piccola thailandese, ma con sua moglie Mariolina Biggetta detta Tutù, donna della sua vita, almeno fino a quel momento. I coltelli partirono all’unisono, sei lame volteggianti nell’aria che sapeva di sterco d’elefante. Si conficcarono all’unisono, facendo un unico tac contro il legno di frassino della parete divisoria tra il settore premium e quello children. Partirono urli, accuse di omicidio, qualcuno stava già chiamando l’ambulanza e la polizia, quando si accorsero che la Tutù era integra, nessun pezzo mancante, neanche una goccia di sangue. In compenso i coltelli l’avevano bloccata contro la parete di legno e non le permettevano il minimo movimento.
“Tu aspetta lì Tutù, che poi ne parliamo, prima devo chiarirmi con questo stronzo”, e si lanciò rosso di rabbia contro l’Uomo Cannone che cadde riverso nello sterco d’elefante e non capiva perché Martello l’iracondo ce l’avesse con lui.
“Bastardo!”
Martello aveva afferrato l’Uomo Cannone alla gola e stringeva con tutta la sua forza, che non era molta, visto che l’Uomo Cannone si alzò portandoselo dietro, tanto da farlo sembrare una specie di mantello che gli pendeva dal collo. Senza i suoi coltelli Antonio Martello era come Superman in presenza di criptonite: le gambuccie corte, il petto rientrante, la schiena ricurva, praticamente un fuscello da gettare al vento. Un movimento delle spalle del troglodita e Martello atterrò sul truciolato della pista. Con il rigore analitico che lo contraddistingueva, l’Uomo Cannone gli chiese ragione di tanta rabbia, al che lui rispose:
“Non potevo certo prendermela con la tua fidanzata contorsionista no?
Molto tradizionalista, Antonio Martello seguiva un suo personalissimo codice d’onore, in cui le donne erano sacre ed ogni obiezione alle loro azioni veniva riversata contro l’uomo di riferimento, in questo caso il Cannone.
“Nooooo!!!”
L’urlo giunse istantaneo, un vero grido di panico. Erano mesi che tutti mantenevano il segreto sulla relazione tra la microscopica thailandese e il ciclopico Uomo Cannone per paura della gelosia di Michelone. L’ultima volta che aveva sospettato che una sua contorsionista lo tradisse con qualcuno, c’era stato un terremoto. Non un terremoto metaforico o fittizio, ma un vero terremoto. Concentrato nell’area in cui il circo era installato, Michelone aveva causato un terremoto potentissimo, che non aveva causato vittime solo per miracolo. Gli spettatori erano stati sbalzati dalle panche e avevano nuotato a mezz’aria come astronauti in una navicella spaziale, poi erano precipitati violentemente, atterrando sulle gradinate e la pista. Rimasero riversi e doloranti nelle posizioni più disparate, come tanti birilli abbattuti da una palla da bowling. L’intera struttura aveva oscillato paurosamente, producendo un boato simile all’urlo di un orco, i cavi di metallo fibravano così intensamente da produrre un suono come di violino, lungo e vibrante, armonico e struggente come un accordo in re minore. In molti avevano pensato che quella era la vera voce di Michelone, che stava riversando in un canto triste e disperato tutto il suo amore impossibile per la contorsionista.
“Nooooo”, ripeterono in coro gli artisti, soprattutto quelli che avevano assistito all’ultimo terremoto.
In preda al panico, ognuno reagiva a modo suo. C’era chi – come l’Uomo Cannone e il Dottore – era rimasto tetanizzato, bloccato nella posizione iniziale e non riusciva a muoversi. Di questo gruppo faceva parte, suo malgrado, anche la Tutù che era ancora bloccata dai coltelli del marito, ma che non si sarebbe mossa per nulla al mondo: il terremoto di Michelone era stato il momento più bello e intenso della sua vita e non se lo sarebbe persa per nulla al mondo.
C’era chi aveva preso la via della fuga, anche se nella concitazione del momento si era sbagliato di direzione e continuava a sbattere contro gli altri che si muovevano in direzioni opposte. Neanche un acceleratore di particelle avrebbe potuto creare più scontri del moto cieco e casuale dei circensi presi dal panico. Finirono per creare un flusso circolare, come quello dei cavalli dell’esibizione equestre, non si sa se nell’illusione che una via d’uscita si potesse aprire all’improvviso oppure semplicemente assecondando il movimento degli altri.
Ma la maggioranza scelse una terza alternativa, istintiva come le precedenti, che era quella dell’aggressione e della violenza gratuita. Bartezzaghi il giocoliere iniziò a scagliare le clave infuocate contro il gruppo che correva in cerchio, dando prova di grande precisione nel lancio, abbattendone una buona parte e incendiando i vestiti dei superstiti. Il nano Brontolo aveva recuperato il coltello con cui Antonio Martello aveva tentato di colpirlo e mostrava chiare intenzioni di vendetta, oltre che una velocità di corsa ben superiore alle aspettative. Le quattro sorelle equilibriste – la cosa non stupirà – diedero fondo a tutto il loro bagaglio d’esperienza nella sottile arte della lite familiare: non si distingueva più di chi era la mano che tirava i capelli dell’altra o quale bocca mordeva quale polpaccio. Volavano insulti in salernitano stretto, spesso indistinguibili. Volavano in aria ciocche di capelli e pezzi di vestiti come stelle filanti e coriandoli a carnevale. Anche le siamesi ebbero una violenta reazione e sfogarono in un lampo tutta la frustrazione di una vita passata ad essere l’una lo specchio riflesso dell’altra. Litigavano in mandarino (quella di destra) e in cantonese (quella di sinistra), rinfacciandosi dispetti e accusandosi di essere stata l’una la causa della sciagura dell’altra. Dalle parole passarono rapidamente ai fatti: ognuna comandava un braccio, ma stranamente non quello più vicino alla sua testa, ma quello opposto. Quindi la siamese di destra tirava l’orecchio dell’altra con il braccio sinistro, mentre la siamese di sinistra usava il braccio destro per cercare di strangolare la sorella, rendendosi però conto della difficoltà di effettuare quell’operazione con una mano sola.
Oltre all’acrobata, che assecondava il movimento degli altri volteggiando pericolosamente da una parte all’altra del tendone, solo due persone non stavano partecipando alla grande commedia che stava andando in scena sulla pista del Circo Razzoli. Giuseppe il clown e Denise la domatrice di gatti rimanevano seduti sulle gradinate, assistendo allo spettacolo più bello che avessero mai visto: le pupille dell’altro. Si conoscevano da molto tempo, da quando Denise era scappata da casa e aveva cercato una sistemazione di fortuna, lavorando prima dietro le quinte e vendendo noccioline e poi creando il suo numero, nato quasi per caso giocando con i molti gatti che adottava in ogni città. Denise doveva avere diciassette anni quandò Giuseppe la vide per la prima volta e lui pochi anni di più. Nonostante si conoscessero ormai da più di quindici anni, Giuseppe di lei sapeva pochissimo, anche perché era l’unica – oltre al nano Brontolo – a non visitarlo regolarmente per le sedute di confessioni e consigli. In realtà Denise non parlava con nessuno, ed evitava qualsiasi tipo di comunicazione che non fosse puramente professionale. Per tutti era un mistero e le voci più maligne si erano diffuse per spiegare il suo strano comportamento, che in realtà era semplicemente causato da una timidezza estrema, quasi patologica. Denise aveva accettato la sua condizione e non si preoccupava di mettere a tacere i pettegolezzi. Si occupava solo dei suoi gatti, che non parlavano ma a cui comunicava ciò che gli altri non avrebbero capito.
Quanto al clown Giuseppe, non si faceva illusioni. Denise gli era sempre piaciuta, ma era stato scottato troppe volte da colleghe del circo – acrobate, contorsioniste, pagliacce, cavallerizze, domatrici di elefanti e di leoni, mangiatrici di spade e giocoliere – da poter credere che Denise fosse una persona prima di essere una circense. Perché gli artisti circensi non sono esseri umani, almeno non nel senso antropologico del termine. Da un punto di vista fisiologico non si distinguono molto dai loro simili: mangiano, bevono, sudano, ingrassano e dimagriscono. Ma da un punto di vista comportamentale sono una razza a parte, incompresibile anche per uno come Giuseppe – circense figlio di circensi – che in quell’ambiente era nato.
Né Giuseppe né Denise riuscivano a staccare lo sguardo da quello dell’altro. Per la prima volta la domatrice di gatti riusciva a guardare qualcuno dritto negli occhi. Prima aveva sempre guardato lo spazio di pelle tra le due ciglia, quello che separa gli occhi, poco sopra al naso. Occasionalmente poteva guardare un occhio, oppure l’altro, ma i due occhi allo stesso tempo mai. Quanto a Giuseppe, per la prima volta da molto tempo la vedeva senza il suo costume di scena: niente perline, né calze argentate e scintillanti. Soprattutto nessuna traccia di quel trucco che sembrava una piuma d’uccello esotico, con delle strisce verdi, gialle e azzurre a formare un’onda che si perdeva nelle tempie. Si rese conto di quanto fosse bella, la pelle chiara e i capelli castani, le sopracciglia fine e le labbra di un rosa quasi etereo. Giuseppe la stava guardando e la stava ascoltando. Non le parole, che anche quel giorno rimasero chiuse nel suo petto, ma il battito del suo cuore. In mezzo alla gazzarra che li circondava – tra urla, spinte e botte fratricide – percepiva perfettamente il pum pum del suo cuore: lento, regolare, vero.
“Giuseppe, Giuseppe!”, lo chiamò il Dottore dal centro della pista, con la giacca sbottonata e il farfallino disfatto. Aveva perso il cappello e il riporto si era scomposto, lasciandolo con una lunga ciocca di capelli di un nero innaturale che pendeva dal lato sinistro della testa.
“Giuseppe falli smettere, ti prego!”, la sua era più di una domanda d’aiuto. Era una vera supplica da uomo disperato, da chi non ha più alternative né speranza, che ha perso la faccia e che sa che non la riavrà indietro.   
Il clown Giuseppe esitò. Sapeva che aveva il potere di farli smettere. Avrebbe potuto prendere il microfono e iniziare il suo spettacolo come ogni sera e quello sarebbbe probabilmente bastato a fermare la lotta che si stava svolgendo. Fu tentato di rispondere alla supplica del Dottore, stava quasi per alzarsi, ma si trattenne. La sua non era vendetta contro il Dottore. Per quanto Razzoli lo detestasse, lui non ricambiava quell’odio. In Razzoli vedeva un uomo solo, costretto a recitare la sua parte perché gli altri continuassero a recitare la loro vita. In qualche modo ammirava la sua dedizione alla causa, il suo stoicismo e la sua lotta titanica e antistorica.
Infine si alzò, prese Denise per mano e uscirono insieme dal tendone. Il Direttore si accasciò sulle ginocchia e si mise a piangere, come un bambino nella tormenta. Il trucco si sciolse in dense gocce nere che andarono a macchiare la giacca rossa dai bottoni dorati.
Pochi minuti dopo faceva la sua entrata Leonardo il leone, seguito da Michele, Joseph, Linnette, Rambo e Rachele. I sei leoni si posizionarono in semicerchio all’entrata di Michelone, bloccando al tempo stesso ogni via di fuga. La reazione non fu immediata, molti erano troppo intenti a picchiarsi, mordersi e insultarsi per rendersi conto di quello che stava succedendo. Fu un processo piuttosto graduale, come una canzone che finisce in un decrescendo progressivo, fino a che anche l’ultima nota scompare nel silenzio. Infine erano tutti in piedi in attesa che succedesse qualcosa. In molti guardarono il Dottore, ma era chiaro che in quello stato pietoso non sarebbe stato in grado di domare neanche a un topo.
Come in una coreografia attentamente studiata, i sei leoni si distribuirono a cerchio attorno alla pista e iniziarono a camminare lentamente verso i circensi, con le fauci spalancate e lo sguardo di chi ha visto un’abbondante colazione. I circensi si strinsero verso il centro, sempre più vicini gli uni agli altri, fino a che lo spazio terminò e furono costretti ad abbracciarsi. Ma i leoni non cessavano di progredire, con lento passo sadico. Fu Piuma Volante a risolvere la situazione, lanciando una corda dal suo trapezio, a cui si aggrappò immediatamente la contorsionista thailandese, seguita dall’Uomo Cannone, Brontolo il nano e Bartezzaghi il giocoliere. L’ultimo a salire fu il Dottore, incerto fino all’ultimo tra affrontare una morte degna oppure scegliere una salvezza ignobile. Decise per la seconda.
In pochi secondi l’intero circo era appeso al trapezio di Piuma Volante. Un miracolo della fisica, visto che i cavi dovevano sopportare cento volte il peso per cui erano state costruiti, ma era chiaro che Michelone ci stava mettendo il suo zampino. I circensi rimanevano appesi con le mani di chi li precedeva, in una piramide umana sospesa. L’unico ad usare le gambe invece che le braccia era stato Inverso, che non volle rinunciare ai suoi principi neanche nel pericolo.
Quando la piramide umana smise di oscillare, il clown Giuseppe apparve all’entrata, con ancora in mano la frusta con cui aveva fatto entrare i leone. Era perfettamente struccato, non una traccia di cerone gli si poteva vedere in faccia o sul collo. Era vestito di un completo grigio, una camicia bianca perfettamente stirata, una cravatta blu e un cappello alla Humphrey Bogart. Al suo fianco c’era Denise, con un tailleur beige, un cappello grigio dalla forma arrotondata, la gonna al di sotto del ginocchio e scarpe nere a mezzo tacco.  Giuseppe sollevò il bavero della giacca come se avesse freddo, prese il microfono a forma di cono gelato, lo accese, aspettò che la musica da circo terminasse e disse con una voce che parve non essere sua: “This is the beginning of a beautiful friendship”.
Cinse la vita di Denise e uscirono di scena, lasciando a Michelone il compito di chiudere la tenda dietro di loro.